“O si esporta decoro o si importa
degrado”. Questa regola, che forse
appare un po’ drastica, è quella che mi riecheggia l’osservare l'invasione
senza limiti. Ripeto, e sottolineo: OSSERVARE; non sto infatti trascorrendo le ferie in qualche campo
profughi, come i nostri tiranni vorrebbero che facessero (questo, non altro!)
tutti i "bravi cattolici": le castagne dal fuoco io non gliele levo!
Se devo essere "solidale" lo faccio lontano dai riflettori e dal mainstream.
Chi ha passato un po’ della sua vita con un
pugno di giovani africani armati…di giratubi e filiere a vincere con la gente
della savana la sfida dell’acqua potabile, non ha bisogno dei falsi moralisti
guerci per capire la vastità del problema e delle soluzioni…CHE SONO TUTTE IN
AFRICA. Nel 1993 rientravo da due anni di volontariato in Africa e come un
pugno nello stomaco ritrovavo per strada file di donne africane: non coi secchi
vuoti in attesa dell'acqua, ma con gli occhi vuoti, sotto chili di trucco, ad
aspettare "clienti"…
Non
mi veniva e non mi viene in mente altro
se non lo stile del volontario: conoscere i problemi delle persone, cercare
insieme soluzioni, ridare dignità e speranza. Il problema non è "la
mancata integrazione nella nostra società": i problemi nascono tutti,
logicamente, dove è partita la tratta. Penose formule stracotte: "Ormai
sono qui !" "Vengono da situazioni allucinanti" "I viaggi della
speranza". Rosari irresponsabili che si traducono in tragedie crescenti.
Quasi che il mondo sia "vivibile"…
solo a casa nostra. E questo come lo chiamiamo se non razzismo? Il mondo è
l'intero pianeta, tutti devono poter vivere dignitosamente dove sono nati, e se
gli va di viaggiare, farlo per scelta e non perché costretti o illusi di andare
a "star meglio". Io in Africa, accanto a miserie indicibili ho
respirato SPERANZA: con investimenti pari a un mese di operazione “Mare
Nostrum” si tira avanti vent’anni garantendo a centomila persone acqua pulita,
agricoltura migliorata, vaccinazioni e sanità di base, con tutto il lavoro indotto
e la formazione al contorno.
Speranza…
perfino quella della donna che, non avendo altro, per far crescere meglio il
bimbo che ha in grembo inghiotte terra ricca di sali minerali: povertà estrema?
Certo, ma infinitamente più ricca di chi potrebbe dare il meglio a suo figlio e
lo elimina inghiottendo un sofisticato prodotto di sintesi dell’industria
farmaceutica, o del mondo che rivendica l’opportunità di farlo a pezzettini,
quel bimbo, per coltivarci pezzi di ricambio in favore di corpi destinati a
perire.
La
drastica regola enunciata all’inizio appare evidente se, guardandoci intorno,
ci riconosciamo per quello che siamo, una civiltà al tramonto. Le civiltà in
crescita, infatti, creano ed esportano architetture, stili di vita, lingue,
culture. Le civiltà al tramonto non esportano che beni di lusso, sempre più “di
nicchia”, importano stili di vita estranei e raccogliticci insieme a masse
umane necessarie a mantenere popolazioni vecchie, fragili, amareggiate del
presente e impaurite del futuro, un processo involutivo che nella paura e nei
piccoli egoismi personali, più o meno giustificati, non scommette più su
famiglia e figli e dalla crescente solitudine trova nuovi motivi di paura e di
amarezza. Anche la lingua, la cultura non è più quella di un popolo, diventa una
giustapposizione di convenzioni in ambiti sempre meno comunicabili (“i
saperi”?)
E’
sintomatico incontrare luoghi di raduno ben definiti e distinti. In alcuni
ambiti di svago si sente parlare solo ispano-americano, in certe allee nelle
ore “morte” delle badanti ti senti come a Lvov o a Bucarest, non parliamo delle
stazioni nelle ore di imbarco/sbarco di ambulanti senegalesi o, peggio,
prostitute nigeriane. Queste persone stanno integrando la loro cultura con la
nostra? Sta nascendo qualcosa di fecondo ? O non stanno chiudendosi in un ghetto senza mura, magari i loro figli in una baby gang “etnica”?
Non parliamo delle banlieues dove pochi anni fa grazie a predicatori rappers i
cui nonni pascolavano greggi algerine,
piccoli proletari mezzo islamici e mezzo nichilisti si divertivano a
bruciare le Renault dei superstiti sessantenni discendenti di Carlo Martello
che ancora non si servono alla macelleria “halal”.
O
si esporta decoro, o si importa degrado. Mi spiace, ma non vedo vie di mezzo. O
si genera lavoro, serio, e si fanno crescere anche altri mercati, altre
società, con le loro culture, i loro stili, la dignità comune a ogni essere
umano, o si importano, per ogni lavoratore, (al posto dei nostri ragazzi
viziati, sottraendo cervelli e braccia allo sviluppo delle loro terre) almeno
dieci disperati che sognano di stare comunque meglio.
Non
avremo mai una buona legge sull’immigrazione né una buona legge sulla
cooperazione allo sviluppo, finché queste leggi non saranno una sola.
Non
voglio però unirmi al coro impotente degli sfiduciati e degli impauriti. Io
credo ancora nell’”esportare decoro”, valori, dignità, benessere, ma solo chi
ha riferimenti certi lo può fare. Chi vede già al di là della fine dell’Impero,
e non ci piange su, ma immagina cosa verrà dopo, e comincia a costruirlo.
Al di là della fine dell'Impero…come S.
Agostino. Morì durante l’assedio dei Vandali alla sua Ippona, ma costruì un
mondo nuovo, per la sua Ippona, per i Vandali, per la Chiesa. Sì: l'import-export
di decoro e valori lo facciamo solo sulle orme dei santi, Vangelo alla mano.